Sono eritrea ed ho due figlie di 13 e 2 anni, sono coniugata e faccio presente che mio marito in Eritrea svolge la professione di militare e per questo si trova ancora li.
In relazione al mio viaggio conclusosi con l’arrivo qui a Pozzallo faccio presente che un mese addietro, unitamente alle citate due mie figlie, mi sono trasferita in ****, nella città di *****, il tutto con l’obiettivo di raggiungere l’Italia, attraverso la Libia. Ho conosciuto degli elementi appartenenti ad una organizzazione criminale dedita al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso la Libia ed indubbiamente collegati con paritarie consorterie di tale nazione. Dico ciò in quanto la totale somma di 4.000 Dollari USA quale corrispettivo per il viaggio mio e delle mie figlie dal **** alla Libia e da tale paese, via mare, all’Italia l’ho corrisposta direttamente agli elementi della consorteria criminale. Il viaggio ha avuto inizio un mese addietro, allorquando trasferivano me e le mie figlie unitamente ad altri 106 soggetti in pieno deserto ******, ove si giungeva dopo tre giorni di viaggio a mezzo di due camion sui cui cassoni tutti quanti trovavamo posto come bestie. In tale luogo tutti quanti venivamo consegnati ad elementi appartenenti ad un’organizzazione *****. Sin da subito si sono dimostrati più cattivi e molti di noi sono stati picchiati, anche per piccole mancanze. In territorio **** tre dei miei compagni sono deceduti e ciò non solo a causa della mancanza di acqua, ma anche per le violente percorse subite. Il viaggio tra ****** e la città libica ********** ha avuto la durata di altri quattro giorni, il tutto dopo una permanenza in ******* di due giorni. Una volta ad ********** siamo stati allocati all’interno di un magazzino ove erano stati concentrati altri soggetti, anche questi destinati al viaggio clandestino verso l’Italia. All’interno della citata struttura vi era la presenza di circa 400 soggetti, di cui donne e bambini. Sono rimasta all’interno del magazzino per complessivi nove giorni e durante tale permanenza ho subito notevole disagio per le condizioni di vita ivi esistenti. Più nel dettaglio tali locali, notevolmente insufficienti ad ospitare un così alto numero di soggetti, non erano sufficientemente areati. Si dormiva sul pavimento e l’unico servizio igienico non era sufficiente per tutti quanti. I libici che ci vigilavano costantemente erano armati di pistole, fucili e di taser (strumento che rilascia scariche elettriche), arma quest’ultima che utilizzavano nei confronti dei soli soggetti di sesso maschile.
Nessuno di noi poteva lasciare il magazzino. Il cibo, costituito esclusivamente da pasta condita con olio, ci veniva corrisposto due volte al giorno in quantità non sufficiente alle nostre necessità alimentari. L’acqua aveva un sapore fortemente salmastro. In qualche occasione ho visto i libici esplodere colpi di pistola dirigendo la traiettoria del proiettile direttamente sulla pavimentazione del magazzino che era costituita da terra battuta. Ciò al solo scopo di impaurire noi allocati all’interno del magazzino e non perché vi fosse un reale motivo. In un’altra occasione ho dovuto assistere alla raccapricciante circostanza che ha visto un libico fortemente ubriaco indirizzare la sua pistola verso un eritreo e quindi esplodere all’indirizzo di quest’ultimo un colpo che lo feriva alla spalla destra. Tale soggetto è rimasto all’interno del magazzino all’atto della mia partenza da esso. Non ho assistito a particolari violenze sulle donne da parte dei libici. Durante i nove giorni di permanenza all’interno della struttura abitativa da me specificata sono venuta a conoscenza del modus operandi, ormai collaudato, adottato dai libici durante il viaggio che è quello di chiedere il soccorso in mare dell’imbarcazione clandestina dopo aver simulato un guasto al motore di quest’ultima. Tale strategia consente di giungere sul territorio italiano a mezzo delle unità di soccorso per cui il viaggio risulta di minore durata e non comporta particolari rischi per l’incolumità di tutti i passeggeri dell’imbarcazione. La partenza dal magazzino di ***** avveniva circa quindici giorni orsono allorquando giungeva un grosso camion il cui cassone dello stesso era stato modificato in modo da trasportare un più alto numero di soggetti.
Più precisamente l’interno dell’alto cassone presentava più livelli, esattamente tre, ognuno di questi poco più alto di un metro, dove i passeggeri si accovacciano nel corso dei vari tragitti. Il camion, una volta carico, percorreva la strada che da *******conduce a *********ed ivi, una volta giuntivi, si recava in una campagna non molto distante dal centro abitato, dove vi era un altro magazzino, quest’ultimo molto più grande rispetto a quello di prima. In tale struttura ho trascorso altri tredici giorni e le condizioni di vita risultavano peggiori rispetto a quelle del primo magazzino, dato che personalmente ho assistito ad atti di violenza da parte dei libici anche nei confronti delle donne. Negli ultimi giorni di soggiorno nel magazzino suddetto, sono venuta a conoscenza, oltre che al già citato modus operandi delle consorterie libiche, di altri particolari relativi al viaggio per l’Italia ed in particolare del fatto che avrebbe visto tutti quanti noi occupanti del magazzino partire per l’Italia nel medesimo momento, ma a mezzo di imbarcazioni diverse e più specificatamente due gommoni ed una barca in legno.
La partenza da tale ultima struttura abitativa avveniva alle ore 08.00 del 12 decorso a mezzo di altro camion, quest’ultimo non artigianalmente modificato nel suo cassone. Il mezzo percorreva per circa un’ora una strada fino a giungere in una zona isolata adiacente ad una spiaggia. Tutti quanti venivamo fatti scendere dal camion e rimanevamo su tale sito fino alle ore 22.00 successive. Raggiunta tale ora, venivamo fatti incamminare fino a raggiungere la citata spiaggia. In acqua, poco distante dalla battigia, vi erano due gommoni; mezzi questi che venivano utilizzati per il trasbordo di tutti noi sull’imbarcazione di legno che si trovava in acque più distanti rispetto alla costa. Gli stessi gommoni compivano ben tre viaggi tra la spiaggia e la barca. Erano i libici a dirci i posti che dovevamo occupare sulla barca e personalmente sono stata sistemata, con le mie figlie, a prua della medesima. Ad alcuni di noi venivano fatti occupare i posti che si trovavano sul piano soprastante la cabina di pilotaggio, mentre altri venivano allocati all’interno della stiva del natante. Sull’imbarcazione di legno, pur tuttavia, non trovavano posto tutti i soggetti che prima erano sulla spiaggia ma solo una parte di essi, con l’esattezza 270. I gommoni, una volta effettuato l’ultimo trasbordo e ritornati sulla terraferma, venivano occupati dai restanti soggetti che colà si trovavano e tali mezzi, di cui uno pilotato dal suddetto somalo e l’altro dall’eritreo, lasciavano la costa assieme all’imbarcazione di legno sulla quale io mi trovavo. Tutti i libici dell’organizzazione rimanevano sulla spiaggia.
Durante il viaggio le persone che si trovavano all’interno della stiva hanno accusato malesseri dovuti a problemi respiratori, molti hanno accusato problemi di salute e agli stessi è stato permesso di salire in coperta nonostante il divieto perentorio che all’inizio del viaggio era stato loro impartito di rimanere sempre all’interno della stiva.
Il boccaporto che collegava la stiva alla coperta è stato chiuso dai libici poco prima della partenza dell’imbarcazione e circa un’ora dopo, considerate le evidenti precarie condizioni in cui versavano coloro che si trovavano nella stiva, noi tutti abbiamo rimosso lo sportello per permettere a questi ultimi un più agevole ricambio d’aria.